Nel corso del suo mandato il Ministro Fornero non si è resa particolarmente simpatica agli occhi del popolo. Con la riforma dei tirocini, in particolare, è riuscita a conquistare le antipatie in contemporanea di imprenditori e giovani laureati. Bisogna darle atto che è riuscita ad unire due categorie che, soprattutto in periodo di crisi, non viaggiano propriamente sullo stesso binario.
La legge, partita con le migliori intenzioni (regolamentare gli stage, per evitare che venissero utilizzati come mezzo per sfruttare il lavoro dei giovani senza dar loro adeguate tutele e garanzie), si è rivelata subito carente sotto molti punti di vista, tanto che non solo non ha realizzato lo scopo, ma ha reso praticamente impossibile ai laureati l’accesso al mondo del lavoro.
In primo luogo l’art. 1 commi 34-35-36 Legge n. 92 del 28.06. 2012 ha stabilito a carico della Conferenza Stato-Regioni l’onere di definire linee-guida condivise in materia di tirocini formativi e di orientamento, con particolare riguardo al riconoscimento al tirocinante di una congrua indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta.
L’ammontare minimo dell’indennità va decisa dalle singole Regioni, ma in ogni caso la sua mancata corresponsione comporta a carico del trasgressore una sanzione amministrativa.
In teoria questa sarebbe una svolta epocale, un segno di civiltà che dovrebbe contribuire a demolire il sistema di sfruttamento gratuito del lavoro di chi inizia a muovere i primi passi fuori dall’università. In pratica la soluzione non si è rivelata adeguata a fronteggiare il particolare momento storico in cui viviamo. Le aziende, in forte crisi, non sembrano intenzionate ad investire nella formazione professionalizzante dei giovani, ben consapevoli che probabilmente, una volta terminato lo stage, non potranno assumere il tirocinante a causa della drastica diminuzione della produzione e, conseguentemente, del lavoro.
In tale situazione un’eventuale retribuzione si configura come un investimento che all’azienda non procurerà alcun vantaggio economico, ma solo la spendita di energie e di know-how devoluto ad una persona che, al termine dei sei mesi, potrebbe sfruttarlo altrove, creando così perdite, oltre che assenza di guadagno.
Certo, si potrebbe obiettare che uno stage senza prospettive di inserimento vale ben poco e che uno stage per il quale non si riceve alcun compenso denota scarsità di interesse del promotore nei confronti del tirocinante e volontà di ottenere manodopera gratuita per qualche mese.
Tutto questo è vero, personalmente trovo frustrante qualsiasi forma gratuita di lavoro, ma le inevitabili conseguenze dell’obbligo retributivo si sostanziano in un drastico calo di offerte di stage, che ad oggi costituiscono, di fatto, l’unico sistema per entrare in una realtà aziendale e per costruire un bagaglio di esperienze da inserire nel Curriculum Vitae.
La retribuzione dei tirocinanti rimane quindi lettera morta, o quasi, nella realtà applicativa, mostrando più che altro il sapore di un buon proposito irrealizzabile. Diverso sarebbe stato se all’obbligo di retribuzione fosse seguito un sistema di aiuti o sgravi fiscali alle imprese, o ad esempio un rimborso totale o parziale alle aziende di quanto speso per l’indennità del tirocinante in caso di assunzione dello stesso a termine dello stage.
Queste sarebbero state misure concrete a sostegno dell’occupazione ed anche delle imprese in obiettiva difficoltà anche grazie all’assenza dello Stato.
Cambiando prospettiva, non minori problemi sorgono dall’art. 11 D.L. 138/2011, il quale dispone che i tirocini formativi e di orientamento possono essere promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di studio. Così facendo si limita moltissimo la possibilità di accedere ad uno stage, soprattutto per i laureati presso facoltà come Giurisprudenza ed Economia e Commercio, i quali necessitano di svolgere la pratica professionale per poter accedere all’esame di abilitazione alla professione. Gli interessati ad uno stage in questi settori, pertanto, si troverebbero costretti a rimandare l’inizio della pratica, così aumentando le già lunghissime tempistiche di conseguimento dell’abilitazione.
D’altro canto, soprattutto per i laureati in giurisprudenza, trovare uno stage senza avere un titolo davvero spendibile è impresa rara. Ci si trova, così, nella situazione per cui si maturano le competenze necessarie per essere appetibili nel mondo del lavoro quando ormai è decorso il termine ultimo per poter fare uno stage.
Tale limite temporale, inoltre, discrimina coloro che, al fine di migliorare la propria preparazione, decidono di iscriversi, dopo la laurea, ad un master o ad una scuola di specializzazione.
La lettera della legge, infatti, è chiara nel limitare la possibilità di svolgere un tirocinio formativo e di orientamento ai solo laureandi o laureati da non più di dodici mesi, come precisato dall’uso del termine “unicamente”. Nulla viene dichiarato in merito all’applicabilità della legge a titoli di studio post-laurea. Si crea così un’intollerabile disparità di trattamento tra neolaureati ed altri giovani che comunque abbiano appena conseguito un titolo di studio, anche superiore.
Il Ministro del Lavoro, stanti i numerosi dubbi dettati dalla disposizione, ha dapprima emanato la circolare n. 24 del 19 settembre 2011, con la quale ha continuato a non chiarire la situazione di chi ha una formazione post-laurea, precisando che l’ambito applicativo della manovra non si estende ai tirocini di inserimento o reinserimento, attivati a favore di inoccupati e disoccupati. Peccato che le aziende continuino ad attivare solo tirocini di formazione, avendo effettivamente una circolare minor autorevolezza di una legge. Come dire, nel dubbio, le aziende non rischiano ed i giovani qualificati in seguito a master o scuole di specializzazione non vengono considerati alla stregua dei neolaureati.
Solo in sede non ufficiale, rispondendo alle F.A.Q. presentate sul sito Cliclavoro, il Ministro o chi per lei ha espressamente disposto che “è possibile attivare tirocini extra-curriculari esclusivamente nei confronti di neo-diplomati o neo-laureati con esclusione, pertanto, di coloro che abbiano conseguito un master universitario o un dottorato di ricerca o un titolo relativo ad un corso di formazione post-universitario o ad un corso di qualificazione professionale”.
È così che costoro restano completamente tagliati fuori dai giochi, realizzando quel paradosso tipicamente italiano per cui chi è più qualificato incorre in penalizzazioni.
Quanto analizzato dimostra l’assoluta inadeguatezza della riforma a fronte del contesto storico in cui si trova immersa: pecca di ingenuità, è riduttiva ed ha molti punti oscuri o fraintendibili. Peraltro la stessa è stata oggetto di una pronuncia di incostituzionalità, che sarà analizzata nel prossimo articolo.
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